AMIRA: La Bellezza e il coraggio

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La famiglia di Amira ha abbandonato il proprio villaggio a Mosul in giugno, ma dal 2006 viveva una situazione di disagio e pericolo.

Amira è molto bella e il marito ha raccontato che le donne sono sempre state gelose della sua bellezza mentre era oggetto degli sguardi e dei commenti spesso pesanti degli uomini.

Nel 2006, quando i soldati statunitensi hanno effettuato un controllo di routine nella loro casa, un vicino cominciò a spargere la voce che Amira e la sua famiglia collaborassero con le forze americane, e peggio ancora che Amira intrattenesse relazioni con gli stessi soldati. Un comportamento grave, quasi una condanna, in una società tanto conservatrice.

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“Hanno iniziato una guerra psicologica contro di noi… Questo èl’Iraq e nessuno si fida di nessuno” ci confida il marito.

Dopo questi fatti la famiglia si è dovuta spostare in varie zone del Paese. Lo scorso anno sono tornati nel proprio villaggio a Mosul, dove la situazione sembrava migliorata, ma quando le forze dell’ISIS hanno occupato la città Amira apprese che sarebbero dovuti partire nuovamente.

“Le stesse persone che mi hanno creato difficoltà stanno adesso causando problemi a tutto il Paese”. Ci dice Amira, pettinando i capelli corvini della figlia.
“Abbiamo avuto paura che l’ISIS potesse reclutare i nostri figli, anche perché molti ragazzi dei vicini si sono uniti come volontari a fianco del gruppo estremista.”

Grazie a UNHCR oggi sono al sicuro nella loro tenda dove il figlio minore di 10 anni, nato precocemente, disegna senza sosta. Da quando vivono nel campo ha disegnato decine di tigri “per proteggere la famiglia”, dice.
Il figlio ventiquattrenne di Amina, si era laureato e voleva avviare un’impresa nel settore automobilistico. Forse un giorno, quando la guerra finirà, potrà tornare a casa e realizzare il suo sogno.

LA STORIA DI BUDIAKI

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Budiaki aveva 15 anni quando i violenti scontri a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, l’hanno separata dalla sua famiglia.
La sorella aveva sposato un famigliare del deposto dittatore Mobutu Sese Seko, e questo li ha condannati. Terrorizzata, Budiaki si è nascosta nei quartieri poveri di Kinshasa, ma ben presto si è resa conto che la sua unica possibilità di sopravvivenza sarebbe stata fuggire, anche se questo significava non rivedere più i suoi cari.

Da quel momento è iniziata la sua lunga odissea. Prima, un pericoloso viaggio in piroga fino a Brazzaville, attraverso il pericoloso fiume Congo. Qui ha conosciuto suo marito, Oumar. La coppia ha avuto una figlia, ma poco dopo ha dovuto lasciare Brazzaville, dove stavano iniziando nuovi scontri, per iniziare una nuova vita in Mali. Ma anche lì la serenità è durata ben poco. Infatti a Bamako, città dove si erano trasferiti, Budiaki ha dovuto affrontare una nuova minaccia: le mutilazioni genitali femminili. Un giorno, il cugino di Oumar ha bussato alla sua porta.

“Domani mattina, al ritorno dal mercato, troverete la vostra bambina mutilata” ricorda Budiaki. Inorridita, Budiaki è fuggita con la sua bambina.
Alla fine ha raggiunto Nouakchott, in Mauritania e ha cominciato a frequentare il centro per le donne dove l’UNHCR offre alle rifugiate la possibilità di studiare materie come informatica, cucina, sartoria.

Oggi Budiaki è un’insegnante qualificata e aiuta altre donne a rintracciare le proprie famiglie e a comunicare con loro. Purtroppo, Budiaki sta ancora cercando parte della propria famiglia. “Non so se potrò mai più rivedere i miei fratelli, ma ora la mia famiglia è qui in Mauritania. Non sono nata rifugiata, ma i miei figli si. Tutto quello che riesco ad ottenere dalla vita è per loro, con il supporto di UNHCR.”

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LA STORIA DI ASMA

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Dal momento del suo arrivo in Libano dopo la fuga dalla Siria due anni fa, Asma, che ha 13 anni, e la sua famiglia hanno vissuto in quattro luoghi diversi. In questo momento vivono in un angusto appartamento nel nord del Libano, dove il padre di Asma ha trovato lavoro in una piccola azienda del cemento. Ma Asma non riesce a chiamare questo luogo casa.

Fin da bambina, Asma è stata una studentessa sopra la media. Ad Idlib, dove viveva, i suoi zii e cugini erano ingegneri e medici. Molti di loro sono morti in guerra. “Se riuscirò a continuare i miei studi, sono sicura che potrò trovare un modo per aiutare a ricostruire il mio paese”, dice. “Ecco perché rimango in piedi fino a tardi… per esercitarmi nella scrittura, per esercitarmi in qualsiasi cosa.” Per mesi, dopo l’arrivo in Libano, Asma è riuscita a malapena ad andare a scuola. Negli ultimi mesi però ha potuto iscriversi ad una scuola di secondo grado finanziata dall’UNHCR, in cui i bambini libanesi frequentano le lezioni al mattino e quelli siriani nel pomeriggio. Asma è felicissima di questa opportunità, anche se dice di sentire la mancanza della serenità, di una stabilità che le permetta di essere di nuovo “in grado di pensare normalmente, di sognare normalmente.”

Per un recente compito a casa, la sua insegnante le ha chiesto di scrivere del suo film preferito o della sua amica preferita. Invece Asma ha scritto della cosa che ama di più ricordare, la sua casa su una collina in Siria, circondata da fiori bianchi e alberi ad alto fusto. “La nostra casa in Siria è un castello abbandonato”, dice in un sussurro, ricordando il passato. “Ci abbiamo vissuto come re. Ora siamo abbandonati ed umiliati. Non abbiamo corone, ma i nostri cuori ancora le indossano”.

LA STORIA DI HANA

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Moltissimi profughi, in maggior parte siriani compiono l’incerto e pericoloso cammino verso e attraverso l’Europa verso i paesi del nord. Qui in uno dei confini chiave, quello fra Serbia e Croazia trovano ad accoglierli, per loro sollievo, gli operatori di UNHCR.

Qui davanti ad un computer nella tenda di prima accoglienza di UNHCR, c’é Hana Zabalawi. Lei stessa è stata una rifugiata durante la prima guerra del Golfo, una donna siro-palestinese che viveva in Kuwait e che è dovuta fuggire dopo l’ingresso dei i carri armati iracheni nel paese. “Io ci sono passata”, dice, “So come si sentono, la sensazione di incertezza e di paura.” Ma ora lei è dall’altra parte, in veste di operatrice dell’UNHCR che si occupa di protezione dei rifugiati sul campo. Si avvicina a loro avvolta in un poncho blu per proteggersi dalla pioggia e cerca di offrirgli un po’ di speranza in una situazione di cosi’ grande incertezza.

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“Lavoro con l’UNHCR da 20 anni, ed è la prima volta che incontro così tanti rifugiati che ci dicono quanto siamo importanti per loro. In tantissimi ci dicono ‘Sono così felice di vederti!”, racconta Hana che aggiunge: “non è solo per l’acqua che diamo loro, o per il cibo. Vedendo noi si sentono più tranquilli, protetti, perché questo per loro è l’ignoto. Si sentono cosi’ perché l’UNHCR gli sta vicino”.

LA STORIA DI MARIAM AL BAKKOUR

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Mariam Al Bakkour ha 31 anni ed ha lasciato Aleppo con il marito e quattro figli all’inizio del 2015. Come gli altri abitanti di Aleppo, anche lei continuava a ripetersi che la guerra sarebbe finita presto. “Ogni sera, dicevo ai miei figli di non preoccuparsi, che domani sarebbe andata meglio.”

Ma quando si svegliò con i carri armati che sparavano sui palazzi accanto al suo non ha esitato a preparare le valigie per fuggire. Hanno aspettato sei ore, fino ad un cessate il fuoco tra il governo ed I combattenti dell’ISIS, e sono fuggiti. Racconta di non aver mai conosciuto veramente la differenza tra sunniti e sciiti fino all’inizio della guerra. “Abbiamo sempre giocato tutti insieme da bambini,” dice “ci consideravamo tutti siriani, non sunniti o sciiti.”

Lo scorso anno Marian ha iniziato a frquentare i corsi di formazione culinaria che Atayab Zaman con il contributo di UNHCR, ha creato per consentire alle donne rifugiate di dare sostegno alle proprie famiglie attraverso i piatti che hanno cucinato e mangiato per tutta la propria vita.

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La maggior parte di loro attualmente lavora nel ristorante di Mouzawak, il Tawlet, e presso la caffetteria gestita da UNHCR, anche se la speranza e’ di riuscire a raccogliere abbastanza fondi per permettere a queste donne di mettersi in proprio.

Mariam ha ora la possibilità di contribuire al benessere della propria famiglia, e la speranza di potersi spostare in una casa più grande. In questo momento, infatti, sono in sei in una piccola stanza, “io a volte ho dovuto appendere il bucato sulle teste dei miei figli mentre giocavano”, racconta Marian, “questa non e’ infanzia, ed io non posso sopportarlo.”

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